Sul diritto d’autore, le enormi opportunità rappresentate dall’intelligenza artificiale sollevano grandi sfide agli ordinamenti giuridici. E se questi non dovessero impegnarsi in uno sforzo attivo per stare al passo con gli ultimi sviluppi tecnologici, la strada per l’armonizzazione della legge con il progresso potrebbe essere in salita. Fortunatamente, sia per quanto riguarda l’Unione Europea sia gli Stati Uniti, la discussione in merito è tanto vivace quanto produttiva.
Partiamo dai capisaldi. Allo stato attuale delle cose, sia in America sia in Europa, il diritto d’autore ha come suo nucleo imprescindibile uno sforzo intellettuale umano che si manifesta attraverso l’espressione di scelte libere e creative. Sono, di conseguenza, le espressioni a essere tutelate, non le idee. Non si può registrare l’idea di un libro, di un film o di un’immagine, ma le parole, i fotogrammi e i pixel che li compongono. E queste singole espressioni devono essere prodotte da esseri umani. Si pensi, ad esempio, al caso del 2018, quando una foto scattata da un macaco è stata dichiarata di pubblico dominio.
Ma torniamo all’intelligenza artificiale. Nel 2022, l’immagine Théâtre D’opéra Spatial creata dall’artista Matthew Allen utilizzando il programma IA Midjourney si classifica al primo posto in una competizione organizzata durante la fiera statale del Colorado. Allen tenta di iscrivere questa opera d’arte al Copyright Office – o Usco – l’agenzia governativa statunitense per la tutela del diritto d’autore, ma la sua richiesta viene negata. Allen scrive nuovamente all’Usco, spiega di aver utilizzato software, tra i quali Photoshop, per modificare l’immagine creata da Midjourney. In tutta risposta, l’agenzia governativa sostiene che Allen può proteggere le parti specifiche dell’opera d’arte sulle quali è intervenuto in prima persona, ma non la totalità dell’immagine. La decisione finale del Copyright Office viene comunicata lo scorso 5 settembre: “L’opera non può essere registrata”.
Allen sostiene che farà ricorso: “Mi batterò con tutte le mie forze”. Ma la decisione che coinvolge Théâtre D’opéra Spatial si va a inquadrare nella trama legislativo-processuale che già da anni si sta sviluppando intorno al rapporto che intercorre tra le opere generate dai modelli IA e le leggi che tutelano la proprietà intellettuale.
Prendiamo il caso di Stephen Thaler, che è ricorso in appello presso il tribunale del distretto di Columbia dopo che l’Usco ha negato la sua richiesta di iscrivere al registro delle opere protette da copyright un’immagine generata dal programma Creativity Machine, creato dallo stesso Thaler. Il giudice Howell, nella sentenza emessa lo scorso agosto, dà ragione al Copyright Office e sostiene che la proprietà intellettuale non può applicarsi ad opere generate da IA e non può altresì essere trasferita a terzi, incluso il creatore del modello che ha generato l’immagine.
La questione sembra risolta, dunque. Se l’oggetto che costituisce l’opera d’arte viene generato da un modello IA, questo non può essere tutelato. Secondo alcuni esperti, infatti, dovrebbe essere proprio così, ma, secondo altri, una soluzione così netta rischierebbe di compromettere l’interesse e gli investimenti destinati a queste tecnologie. Si potrebbero vagliare dei compromessi.
Nel 2020, la Commissione Europea si è proposta di fare proprio questo. Nel suo rapporto, intitolato Trends and developments in artificial intelligence, ha individuato una serie di criteri per il riconoscimento della tutela autoriale a un’opera realizzata con l’ausilio dell’IA, tra cui la necessità di uno sforzo intellettuale umano e di una scelta libera e creativa dell’autore. Si è operata una distinzione, che farà sicuramente scuola nel dibattito in questione, tra “AI-generated output” e “AI-assisted output”. Il primo è un prodotto creato interamente o principalmente dall’intelligenza artificiale senza un significativo intervento umano; il secondo viene influenzato o migliorato dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale, ma in cui l’elemento umano è ancora fondamentale.
Un’opera si potrebbe tutelare, dunque, se l’IA venisse utilizzata come strumento o risorsa per supportare o potenziare l’operato umano e a patto che le decisioni finali, seppur prese sulla base delle informazioni fornite dall’IA, vengano determinate dall’essere umano.
Ma come stabilire nel concreto questo principio all’interno dei nostri sistemi legali? Molti esperti temono il cosiddetto “novismo digitale”, cioè la tendenza a legiferare nello specifico sui fenomeni più recenti della tecnologia, invece che basarsi su principi già stabiliti e solidi nella nostra giurisprudenza. Potrebbe essere invece preferibile il ricorso ai principi generali di diritto già in vigore in tema di copyright, reinterpretandoli alla luce degli sviluppi che si andranno via via a realizzare. Che si decida di dare nuove interpretazioni ai principi vigenti o che si intervenga con produzioni normative ad hoc, l’IA pone questioni fin d’ora mai affrontate.
Nel campo dell’audiovisivo si sono andate a determinare già due principali fonti di scontro tra autori e produttori che ruotano intorno a questi nuovi modelli creativi. Il primo è la questione del diritto d’autore riferito al materiale di addestramento. Come già più volte ricordato, i modelli IA hanno bisogno di vaste quantità di opere, scritti e sceneggiature preesistenti, che vanno a fagocitare e rielaborare per poi produrre il proprio output “originale”. I detentori dei diritti del materiale utilizzato dall’IA reclamano a gran voce la necessità di un compenso e delle royalties, mentre gli architetti dei sistemi sostengono di non essere in grado di stabilire a quali autori siano dovuti quali pagamenti, perché la struttura di questi modelli è troppo complessa e opaca per poter risalire alle fonti. Del resto, qualsiasi autore in carne ed ossa può ed è influenzato dai propri colleghi, ma, tranne che in caso di plagio, questo meccanismo è a tutti noto e da tutti approvato.
Il secondo è la proprietà intellettuale declinata all’interno della contrattualistica produttiva di un film. Un produttore sagace potrebbe inventarsi un’idea per un film e buttare giù una prima stesura grazie all’utilizzo di un programma IA e scritturare lo sceneggiatore solamente per lavorare su un copione “pronto”. Ovviamente lo sceneggiatore, in questo caso, potrebbe pretendere molto meno in fase contrattuale, perché non è stato incaricato di inventarsi una storia o costruire una sceneggiatura ex-novo, è alla stregua di un editor che deve lavorare molto di più per molto meno. Questo è il motivo per il quale, durante lo sciopero degli sceneggiatori della WGA e degli attori della SAG-AFTRA a Hollywood una delle pretese degli scioperanti è che i membri della gilda non vengano messi a lavorare su sceneggiature prodotte attraverso l’intelligenza artificiale.
Questo, dunque, è il conflitto di interessi. Da un lato troviamo la tutela dei frutti dell’inventiva e dell’ingegno umano, dall’altro la salvaguardia del processo tecnologico, con i suoi conseguenti benefici economici e – perché no? – culturali. La risoluzione non è facile né dal punto di vista sostanziale né formale. Dove sussiste la linea di demarcazione tra l’utilizzo di un nuovo, seppur potentissimo, strumento creativo e l’autorialità stessa? Come rappresentare nel migliore dei modi questa nuova realtà all’interno dei nostri ordinamenti legali? L’intelligenza artificiale nasce come materia interdisciplinare per eccellenza, di conseguenza sarà necessario coinvolgere il maggior numero di prospettive e aree di expertise possibili per arricchire le discussioni che la riguardano e per informare le decisioni che da essa scaturiscono.
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